IL PRETORE Ha emesso la seguente ordinanza di rimessione degli atti alla Corte costituzionale nelle cause iscritte ai nn. 7376/1996 e 8264/1996 r.g.l. della pretura circondariale di Milano, rispettivamente promosse da: 1) Longoni Davide, con l'avv.to Russo; 2) Mazzini Marina e Fiorentin Clara, con gli avv.ti Medina e Sertori; contro: Ente poste italiane, con l'avv.to Amato (costituito nella prima) e l'avv.to Natoli (costituito nella seconda). Longoni Davide, Mazzini Marina e Fiorentin Carla sono stati assunti dall'Ente poste italiane con contratto a tempo determinato, rispettivamente per il periodo 1 marzo/30 giugno 1996; 4 aprile/3 luglio 1996 e 16 marzo/15 luglio 1996. Nelle tre lettere, di identico tenore, con cui e' stato formalizzato il rapporto si legge che la "assunzione viene effettuata alle condizioni di legge e del CCNL del 26 novembre 1994 ed in particolare per necessita' di espletamento del servizio in sostituzione del lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto (art. 8 CCNL)". In realta', le ragioni addotte a giustificazione dell'apposizione del termine non rientrano in alcuna delle ipotesi previste dall'art. 8 CCNL 26 novembre 1996, ne' rispettano le previsioni della legge n. 230/1962, dal momento che la norma contrattuale (secondo comma) autorizza - in deroga alle piu' rigide previsioni della legge n. 230/1962 ed "in attuazione di quanto specificamente previsto dall'art. 23, punto 1), della legge 28 febbraio 1987, n. 56" - la stipulazione di contratti a termine per "necessita' di espletamento del servizio in concomitanza di assenze per ferie nel periodo giugno-settembre", per "incrementi di attivita' in dipendenza di eventi eccezionali o esigenze produttive particolari e di carattere temporaneo che non sia possibile soddisfare con il normale organico" e per "punte di piu' intensa attivita' stagionale", e che la legge n. 230/1962 (espressamente richiamata al primo comma dell'art. 8), pur consentendo (art. 1 secondo comma, lett. b) di fare ricorso a tale tipo di contratti per la sostituzione "di lavoratori assenti e per i quali sussiste il diritto alla conservazione del posto", subordina - pero' - detta possibilita' alla condizione che "nel contratto di lavoro a termine sia indicato il nome del lavoratore sostituito e la causa della sua sostituzione". Si dovrebbe, pertanto, dar atto - ex art. 1, primo comma, della legge n. 230/1962 - del carattere ab origine indeterminato dei rapporti dedotti in giudizio, ma la possibilita' di partire da tale premessa per affrontare le ulteriori domande attoree (tra cui quella di reintegrazione nel posto di lavoro) e' - allo stato - preclusa dalla recente emanazione di nuove disposizioni di legge, precipuamente finalizzate ad inibire tale effetto. Il quadro dei riferimenti normativi, legali e contrattuali, di cui innanzi si e' detto e' stato, infatti, completamente travolto - dopo un primo decreto-legge (404/1996) di formulazione diversa, ma di analoghe finalita', decaduto - dal decreto-legge n. 510/1996, convertito senza modifiche per la parte che qui interessa con legge n. 608/1996, che all'art. 9, ventunesimo comma, seconda parte, dispone: "Le assunzioni di personale con contratto di lavoro a tempo determinato effettuate dall'Ente poste italiane, a decorrere dalla data della sua costituzione e comunque non oltre il 30 giugno 1997, non possono dar luogo a rapporti di lavoro a tempo indeterminato e decadono allo scadere del termine finale di ciascun contratto". I difensori di parte ricorrente hanno, per il vero, proposto chiavi di lettura della nuova normativa che escluderebbero la sua applicabilita' alle fattispecie in esame, sostenendo rispettivamente che: il divieto di conversione che da essa nasce non puo' che riferirsi alle sole assunzioni effettuate nel rispetto dei requisiti prescritti per la validita' dei contratti a termine, poiche' una simile limitazione - presupponendo una modifica dell'originario carattere del rapporto - e' concettualmente incompatibile con gli pseudo contratti a termine, che gia' sono - ope legis - contratti a tempo indeterminato fin dal loro sorgere; il verbo usato ("non possono") circoscrive la deroga ai soli rapporti ancora in corso alla data di entrata in vigore della norma, non potendo un comando formulato al presente riguardare fattispecie che, per effetto della nullita' del termine, si erano gia' trasformate al momento della sua emanazione in contratti a tempo indeterminato. Le argomentazioni che li accompagnano rivelano chiaramente che al fondo di tali sforzi interpretativi sta di fatto la comune difficolta' di accettare una modifica a posteriori delle regole preventivamente date. Ma, che l'intento del legislatore sia esattamente stato quello di congelare l'automatismo previsto dal primo comma dell'art. 1 della legge n. 230/1962, per un periodo di oltre tre anni e con specifico riferimento ai contratti a termine "irregolari" stipulati dall'E.P.I., gia' conclusi o ancora in corso, ovvero stipulandi sino alla fine del prossimo mese di giugno, sembra alla scrivente una conclusione ben difficilmente contestabile alla luce della stessa lettera della norma, tenuto conto della esplicita retrodatazione dei suoi effetti alla data di costituzione dell'ente che - da un lato - direttamente contraddice il significato attribuito all'uso del presente indicativo (che, anzi, nel contesto in cui e' inserito, sottolinea semmai la perentorieta' del divieto) e che - dall'altro lato - rende assolutamente improbabile che con essa si sia voluto - oltre che limitare la futura liberta' dell'ente (anziche' rafforzarla, consentendogli di continuare a stipulare contratti a termine atipici, senza costi in termini di stabilita' dei relativi rapporti) - rimuovere, tornando indietro di quasi tre anni, solo e proprio quei contratti che esso abbia in ipotesi spontaneamente ed intenzionalmente confermato, in base - evidentemente - ad una valutazione di propria utilita' e convenienza. Di quali siano state le ragioni, coerentemente tradotte nella formulazione della norma, che hanno spinto prima il Governo e poi il Parlamento ad imboccare tale via, da' - d'altra parte - una chiara testimonianza il dibattito che ha preceduto la sua coversione in legge e la stessa accettazione, come da verbali della seduta della Camera dei deputati del 27 novembre 1996, da parte del Governo dell'ordine del giorno Borghetta e Strambi n. 9/2698/1 (non sottoposto per tale ragione a votazione) e - quindi - dell'impegno "a garantire comunque l'assunzione di quanti hanno proposto e vinto ricorso in prima istanza o inoltrato ricorso prima dell'emanazione del decreto n. 404 del 1996". Deve, dunque, darsi per assodato che le retroattive disposizioni dell'art. 9, ventunesimo comma, della legge n. 510/1996 si applicano anche alle fattispecie in oggetto (identiche o analoghe a molte altre in attesa di sentenza o gia' accolte in primo grado), con conseguente rilevanza nella decisione demandata a questo giudice dei non pochi dubbi che esse pongono rispetto a numerose norme della Carta costituzionale. La questione e' gia' stata sottoposta al vaglio della Corte costituzionale da altri pretori (pretore di Genova, ordinanza n. 1299, in Gazzetta Ufficiale del 4 dicembre 1996; pretore di Fermo, ordinanza del 22 ottobre 1996; pretore di Torino, ordinanza del 16 dicembre 1996; pretore di Padova, ordinanza del 17 dicembre 1996), che hanno richiamato l'attenzione - con diverse intensita' ed accenti - sull'incompatibilita' della disciplina de qua con il dettato degli artt. 3, 4, 35, 39, 41, 101, 102 e 104 della Costituzione, oltre che - sotto il profilo (oggi superato dalla intervenuta conversione in legge) di un ingiustificato ricorso alla decretazione d'urgenza - con l'art. 77 della Costituzione (pretore di Genova). Ad evitare l'inutile ripetizione di rilievi ed argomentazioni, gia' proposti in detti provvedimenti, si concentrera' - pertanto - l'esame su alcuni specifici aspetti, che per la loro peculiarita' o particolare gravita' meritano - ad avviso della scrivente - di essere ulteriormente evidenziati, a partire dalle condotte e dalle ragioni che hanno generato l'attuale situazione e che gia' segnalano la netta frattura esistente tra il principio universale di uguaglianza di cui all'art. 3 della Costituzione e la disuguale soluzione adottata dal legislatore per far fronte ai problemi, con cui - in mancanza di tale ancora di salvataggio - si dovrebbe oggi confrontare l'E.P.I., avendovi - pero' - esso stesso dato causa ieri, violando sistematicamente la normativa vigente in materia ed alimentando a catena - attraverso la successiva assunzione a termine di persone sempre diverse - il numero degli aventi diritto, in base ad essa, alla stabilizzazione del rapporto. II "piano assunzionale di n. 3.200 unita'", recentemente varato dall'E.P.I. "per sopperire alle esigenze i personale dell'area operativa, prevalentemente nel settore del recapito" (e cioe' per mansioni identiche o quantomeno equivalenti a quelle svolte dal personale precedentemente assunto a termine, al quale - in linea con le disposizioni della prima parte del comma ventunesimo dell'art. 9 decreto-legge n. 510/1996 - e' stato garantito un diritto di precedenza sugli altri aspiranti) pone - per la verita' - seri interrogativi sulla reale esistenza o, comunque, dimensione della asserita sproporzione del numero degli aventi diritto (ed interesse) all'accertamento della nullita' del termine ed alla prosecuzione del rapporto rispetto alle effettive ed attuali esigenze di organico dell'ente. Anche ad ammettere, tuttavia, che il numero dei lavoratori assunti con contratti a termine non rispondenti ai requisiti di legge e/o di contratto (a decorrere non tanto dalla data di costituzione dell'E.P.I., ma dalla data di stipulazione del primo CCNL di settore) davvero superi le sue presenti ed immediatamente future esigenze di organico, non si potrebbe comunque ignorare che: il decreto-legge n. 487/1993, convertito nella legge n. 71/1994, dopo aver trasformato (art. 1, primo comma) "l'amministrazione delle poste e delle telecomunicazioni... in ente pubblico economico denominato ente "Poste italiane".." e stabilito (art. 6, secondo comma) che il personale della cessata amministrazione "resta alle dipendenze dell'ente, con rapporto di diritto privato", ha previsto (art. 6, comma sesto) che "ai dipendenti dell'ente continuano ad applicarsi i trattamenti vigenti alla data di entrata in vigore del presente decreto fino alla stipulazione di un nuovo contratto"; nessuna variante e' stata introdotta, rispetto alle scadenze sopra indicate, dallo statuto dell'E.P.I., di cui al decreto interministeriale 14 aprile 1994 nel quale solo si ribadisce (art. 17) che "il rapporto di lavoro del personale dell'ente e' disciplinato dal codice civile, libro V, dalle leggi che regolano il rapporto di lavoro nell'impresa, dal regolamento d'azienda e dal contratto individuale e collettivo", a livello nazionale e decentrato; l'E.P.I. ha pertanto fruito, tenuto conto del tempo trascorso tra la data della sua costituzione e di quella di sottoscrizione del primo CCNL di settore, di un periodo di transizione di circa nove mesi, destinato - nell'ottica del legislatore - proprio a consentire un morbido e graduale adattamento ai diversi vincoli e formalita' connessi alla trasformazione dei rapporti di lavoro da pubblici a privati; in sede di contrattazione collettiva, le disposizioni dell'art. 23 legge n. 56/1987 hanno consentito all'ente di individuare e di pattuire con le OO.SS. dei lavoratori delle specifiche ipotesi (recepite - come si e' visto - nell'art. 8 del CCNL 26 novembre 1994) di lecito ricorso ai contratti a termine in aggiunta a quelle previste in via generale dalla legge n. 230/1962; v'e' da supporre che tale allargamento rispondesse - in quanto risultato di un libero confronto e di una libera trattativa, e non frutto di un'imposizione esterna - alle necessita' prospettate dallo esso ente o rappresentasse, quantomeno, una soluzione con esse compatibili; l'ampia discrezionalita' ad esse concessa dalle previsioni dell'art. 23 della legge n. 56/1987 ben avrebbe, d'altra parte, consentito alle parti collettive di prorogare - con specifico riferimento alla materia dei contratti a termine - la stessa durata della fase transitoria prevista dalla legge n. 71/1994 o di graduare, adattandoli alle esigenze del caso, i tempi di definitiva ed integrale applicazione delle previsioni della legge n. 230/1962 e/o delle stesse varianti ad essa apportate attraverso l'art. 8 del CCNL; le ipotesi previste dal secondo comma dall'art. 8 del CCNL, in aggiunta a quelle gia' contemplate dalla legge n. 230/1962, coprono - in ogni caso - un assai vasto arco di situazioni, talche' sarebbe arduo sostenere che l'ente non avesse a disposizione strumenti adeguati e sufficienti a far fronte, mantenendosi all'interno dei confini ad esso tracciati dalla legislazione in vigore e dagli impegni contrattualmente assunti, ai bisogni legati all'efficiente organizzazione ed offerta del servizio ad esso demandato; le violazioni riscontrate, oltretutto, non sempre o non necessariamente sottintendono la carenza dei presupposti sostanziali, che hanno a monte influenzato le deroghe introdotte in via legislativa o contrattuale alla regola della durata indeterminata del rapporto di lavoro subordinato, mentre senz'altro rivelano una diffusa noncuranza (tenuto conto in tale valutazione anche dei casi segnalati nelle ordinanze sopra richiamate e dell'insieme delle controversie di analogo oggetto, gia' decise o ancora pendenti avanti questo stesso giudice, e non trasmessi alla Corte solo per evitare un inutile appesantimento della pratica) dei vincoli di forma, imposti al fine di darne una preventiva e puntuale attestazione. In tale quadro, neppure le disposizioni rivolte a disciplinare il futuro (non direttamente rilevanti, in ogni caso, nella decisione delle cause in oggetto) si sottraggono a dubbi di costituzionalita', tenuto conto sia dell'assoluto vuoto di normativa creato attorno alle assunzioni a termine effettuate dall'E.P.I. "non oltre il 30 giugno 1997" (a differenza di quanto avviene per qualsiasi altro imprenditore e di quanto, ad esempio, in precedenza previsto per lo stesso E.P.I. dal decreto-legge n. 404/1996, che aveva - quantomeno - ripristinato la normativa pubblicistica anteriormente in vigore); sia dell'incertezza sulla effettiva durata dell'anomia (non essendo, infatti, per nulla chiaro se il prossimo 30 giugno riguardi anche la scadenza dei contratti a termine liberalizzati ovvero solo la data entro cui deve avvenire l'assunzione, con scadenza indefinita anche oltre tale epoca), sia della ben difficile compatibilita' dell'eccezione introdotta (che non solo sottrae alla loro sfera di intervento una competenza gia' per legge demandata alle OO.SS., ma che si sovrappone, neutralizzandole temporaneamente, ad intese sindacali gia' sottoscritte) con le previsioni dell'art. 39 della Costituzione. Se, fatta sempre salva la necessita' di una miglior verifica dell'effettiva dimensione deI problema che ne e' la premessa, le disposizioni rivolte al futuro possono almeno contare su ragioni di "oggettiva" opportunita' in quanto dirette - a prescindere dalle sue cause - a prevenire l'ulteriore aggravamento della situazione in atto, e se l'eccezionalita' della deroga da esse introdotta puo' essere compensata dalla preventiva conoscenza della sua portata e della sua provvisoria durata, le disposizioni rivolte al passato - finalizzate a porre rimedio ad una situazione gia' consolidata, in tesi d'emergenza, ma direttamente creata ed alimentata e non passivamente subita dall'E.P.I., attraverso la rimozione d'imperio non di mere aspettative, bensi' di diritti gia' acquisiti, che l'intervento del giudice non costituisce, ma semplicemente dichiara, e - per di piu' attinenti un bene di tale rilevanza da essere posto dalla Costituzione a fondamento della Repubblica Italiana - acquistano l'amaro sapore di un intervento premiale a favore di chi ha ripetutamente violato la legge e punitivo nei confronti di chi quella legge era destinata a tutelare. Il confronto tra la benevolenza del trattamento riservato all'E.P.I., con la cancellazione di tutte le conseguenze da esso direttamente prodotte, e l'indifferenza viceversa mostrata per i diritti gia' entrati in forza della previgente legislazione nel patrimonio dei lavoratori, con compressione - anziche' promozione, cosi' come previsto dall'art. 4 Cost. - delle condizioni che rendono effettivo il diritto al lavoro e sottrazione - anziche' incremento, cosi' come previsto dall'art. 35 della Costituzione - della tutela a tale bene, evidenzia un atteggiamento di pregiudiziale favore nella considerazione e protezione degli interessi del primo rispetto agli interessi dei secondi, che - anche al di la' delle molte ed ulteriori differenze di disciplina che da esso derivano (indubbiamente anomale, nel caso di specie, a causa della loro imposizione ex lege, ma in astratto compatibili con la flessibilita' introdotta in materia di contratti a termine dalla legge n. 56/1987) - mina alla radice il principio di uguaglianza di "tutti i cittadini. ... davanti alla legge" rischiando di mettere in discussione le stesse ragioni che, nel patto sociale, attribuiscono autorevolezza e credibilita' alla funzione legislativa, rafforzando l'obbligo formale di rispettare le leggi con la convinzione di doverle rispettare. Della gravita' di tale atteggiamento e del rischio che ne consegue e', ovviamente, una componente primaria il carattere retroattivo della disposizione in esame, poiche' se e' ben vero che nella Costituzione il divieto di retroattivita' e' esplicitamente formulato in riferimento alla sola legge penale, la negazione di un analogo divieto, di portata generale, presupposto e non effetto delle disposizioni recepite con lapidaria chiarezza ("La legge non dispone che per l'avvenire; essa non ha effetto retroattivo.) nel primo comma dell'art. 11 delle disposizioni preliminari del codice civile, farebbe venir meno la stessa ragione fondante - in un sistema democratico - del potere legislativo ed insieme del ruolo della giurisdizione, contraddicendo la funzione del primo di dettare in via anticipata ed astratta le regole di comportamento che disciplinano la convivenza civile, per consentire a tutti i suoi membri indistintamente di operare le proprie scelte, conformi o meno a tali regole, ma in ogni caso con preventiva cognizione (o comunque conoscibilita') delle conseguenze del loro agire, e compromettendo il neutrale ed indipendente controllo (artt. 24, 101 e 104 della Costituzione), attribuito alla seconda anche contro i rischi di prevaricazione dei "poteri forti", sull'osservanza o sulla violazione nel singolo caso delle leggi gia' date e delle conseguenze gia' pronosticate, in via generale ed astratta, per l'una o l'altra ipotesi. Vero e' che l'individuazione del suo carattere retroattivo - che e' sempre di immediata evidenza nel caso della legge penale, in quanto sol legato al tempo di commissione della condotta (attiva od omissiva) rilevante rispetto alla data di entrata in vigore della norma che la vieta o la impone - puo', viceversa, essere tutt'altro che agevole nel caso della legge civile, nella quale non raramente la stessa durata nel tempo di determinati eventi o comportamenti o inerzie e' assunta ad elemento costitutivo della fattispecie e nella quale, pertanto, la modifica in itinere degli originari requisiti cui era collegata la maturazione o l'estinzione di un diritto, connaturata alla necessita' della legislazione di adeguarsi progressivamente, se non gia' di anticiparle e di guidarle, alle trasformazioni della realta' che essa e' destinata a disciplinare, potrebbe facilmente, ma erroneamente, essere confusa con la retroattivita' della legge. Un simile pericolo, che forse anche spiega la ragione del diretto divieto formulato nel secondo comma dell'art. 25 della Costituzione solo rispetto alla legge penale, neppur puo' essere - pero' - paventato nel caso in esame, dal momento che - come gia' si e' ripetutamente rilevato - la modifica legislativa di cui si tratta e' dichiaratamente volta a rimuovere diritti gia' perfetti, e non semplicemente perfettibili. Della delicatezza del problema posto dalla interferenza di una legge retroattiva con i principi-cardine sui quali, anche indipendentemente dalla loro esplicita recezione nella Carta costituzionale, comunque si fonda il sistema democratico italiano ha - d'altra parte - ripetutamente dato atto la Corte costituzionale, chiarendo (cosi' in sentenza n. 311/1995, a proposito di leggi interpretative) che "la sovrana volonta' del legislatore nell'emanare dette leggi incontra una serie di limiti che questa Corte ha da tempo individuato, e che attengono alla salvaguardia, oltre che di norme costituzionali, di fondamentali valori di civilta' giuridica posti a tutela dei destinatari della norma e dello stesso ordinamento nei quali vanno ricompresi il rispetto del principio generale di ragionevolezza che ridonda nel divieto di introdurre ingiustificate disparita' di trattamento (sentenze nn. 397 e 6 del 1994; 424 e 283 del 1993; 440 del 1992 e 429 del 1993), la tutela dell'affidamento legittimamente sorto nei soggetti quale principio connaturato allo Stato di diritto (sentenze nn. 397 e 6 del 1994; 429 del 1993; 822 del 1988), e il rispetto delle funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario". Partendo da tali rilievi, la Corte ha comunque costantemente ancorato la propria valutazione sulla costituzionalita' o incostituzionalita' di leggi retroattive in materia civile (peraltro quasi sempre emanate sotto la forma di leggi di "interpretazione autentica") ad un giudizio di ragionevolezza o irragionevolezza della soluzione a posteriori adottata dal legislatore, individuando in tali caratteristiche gli indici del rispetto o della violazione del principio di non discriminazione di cui all'art. 3 Cost., e ritenendo, in particolare (sentenza n. 376/1995), che "la possibilita' di adottare norme dotate di efficacia retroattiva non puo' essere esclusa, ove esse vengano a trovare un'adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza e non si pongano in contrasto con altri principi o valori costituzionalmente protetti (sentenze nn. 397, 153 e 6 del 1994)". Anche rimanendo all'interno di tali coordinate non dovrebbero, tuttavia, esservi dubbi sulla incostituzionalita' della soluzione adottata nel caso di specie che non solo prescinde dalle cause dell'accaduto, sacrificando ad esigenze contingenti beni (lavoro, liberta' sindacale, tutela giurisdizionale) di primaria rilevanza costituzionale, ma prescinde - altresi' - dall'esistenza nel nostro ordinamento di rimedi specifici - anch'essi traumatici, ma non eccezionali - che pur consentono al datore di lavoro di ridurre l'organico, asseritamente esuberante, con l'onere - pero' - di osservare l'apposita procedura dettata dalla legge n. 223/1991, al fine di dare trasparenza all'operato datoriale e di garantire il controllo sindacale sulle cause dell'addotto esubero; sull'entita' dei tagli effettivamente necessari; sulla percorribilita' di strade alternative e sui criteri (per legge riferiti, salva diversa intesa sindacale, anche a fattori soggettivi e sociali, oltre che ad esigenze tecniche) da adottare per la selezione. La legge n. 223/1991 rappresenta, com'e' noto, la traduzione nel nostro ordinamento di una risalente direttiva CEE e, segnando la via obbligata attraverso cui deve realizzarsi nel nostro Paese - in forza della fonte sovranazionale - la tutela del lavoro, individua anche il parametro minimo ed irriducibile cui va oggi commisurato l'effettivo rispetto dell'impegno assunto negli artt. 4 e 35 della Costituzione, che deve ovviamente ritenersi violato non solo quando si pervenga all'espulsione di chi e' ufficialmente dipendente senza attuare la prescritta procedura, ma anche - ed a maggior ragione - quando si elimini a monte la necessita' stessa di fare ricorso ad essa ridimensionando a priori il numero dei dipendenti in forza. Dalla stessa legge risulta, inoltre, arricchito il ruolo e la funzione attribuita nel nostro ordinamento ai sindacati, talche' l'adozione di un provvedimento che di fatto sottrae alle OO.SS. dei lavoratori la possibilita' di verificare l'entita' dell'esubero e di interloquire sui rimedi esperibili ed effettivamente necessari aggiunge gravita' al danno gia' prodotto alla loro credibilita' ed immagine - e, di riflesso, al bene tutelato dall'art. 39 Cost. - dapprima dalla totale indifferenza mostrata dall'E.P.I. rispetto agli obblighi assunti con il CCNL 26 novembre 1994 e poi dalla sanatoria incondizionatamente concessa dal legislatore attraverso la normativa de qua. Ne consegue, per l'insieme de rilievi che precedono, la necessita' di sottoporre le disposizioni della seconda parte del ventunesimo comma dell'art. 9, legge n. 608/1996, all'esame della Corte costituzionale per la verifica della loro compatibilita' con i valori ed il dettato della Costituzione.